Il bambino che sognava

-racconti-d-inverno-20190920-133009-img761Un amico mi ha fatto leggere Il bambino che sognava, un racconto di Karen Blixen, contenuto nella raccolta Racconti d’inverno (trad. di Adriana Motti, Adelphi, Milano 1980, ed. originale 1942). Mi ha detto che la scrittrice è riuscita a raccontare in modo straordinario con gli occhi di un bambino. Non credo sia del tutto così, perché se è vero che, a mio modo di vedere, si tratta di un grande racconto, tuttavia il centro è un altro ed è una domanda: che cosa accade quando il mondo – e in particolare il mondo dei valori borghesi – è costretto a guardare la realtà attraverso gli occhi di un bambino?

È la storia di Jens, un bambino che vive nei quartieri poverissimi di Copenaghen e attraverso i racconti di una donna che ha lavorato presso le famiglie nobili della città, costruisce un suo grande sogno, l’“immensa fantasia” di essere in realtà figlio di una famiglia di aristocratici, che quel mondo gli appartenga quindi per nascita e che a esso prima o poi tornerà.

Ma è anche la storia di Jakob ed Emilia Vandamme, i giovani eredi di una ricca famiglia di armatori. Lei è il simbolo della razionalità borghese: “i suoi vecchi, quei saldi e risoluti mercanti, non avevano mai chiuso gli occhi quando redigevano i loro bilanci: nei tempi avversi, avevano fermamente guardato in faccia la bancarotta e la rovina; erano i leali, inflessibili servi dei fatti”. Anche Emilia vive una vita regolata dai profitti e dalle perdite, e per questo ha rinunciato al grande amore di Charlie, che forse l’avrebbe perduta ma di certo amata pienamente, e alla fine si è accontentata di sposare il cugino Jakob. I due non hanno figli e decidono di adottare un bambino povero e orfano.

La scelta, causalmente, cade su Jens il quale vede avverarsi il suo sogno o meglio si potrebbe dire materializza la realtà del sogno. Perciò per lui la ricchezza, la grande casa dei nuovi genitori, gli oggetti, gli animali domestici e le pratiche quotidiane non sono nient’altro che l’incarnazione di ciò che già sapeva e aveva minuziosamente immaginato in ogni momento della sua vita. Emile scopre invece che la solitudine esistenziale del bambino è identica alla sua, o forse meglio la sua vita capovolta: lui ha sognato sempre e ha realizzato il suo sogno pur vivendo una vita senza affetti veri, lei ha cancellato tutti i suoi sogni e ora vede il vuoto della sua esistenza.

Ma nello stesso tempo, la presenza di Jens la costringe a guardare il mondo con gli occhi di un sognatore, anzi di un poeta che può vivere solo nutrendosi di sogni. Così, quando Jens muore – perché, in quel mondo ricco e al tempo stesso privo di fantasia, non possono esserci sogni per nutrire il suo immenso universo interiore – a Emile non rimane che creare un sogno parallelo e proiettarlo nel suo passato, rivelando a Jakob che Jens sarebbe stato in realtà il figlio del suo rapporto con Charlie.

Quello di Emile è il sogno necessario, come gli ha insegnato Jens, per vivere e impedirsi di esistere nella propria solitudine. Perciò la giovane si rivolge alla fine a Jakob dicendogli che solo in una cosa lei è più saggia di lui: “Io so che sarebbe meglio, e più facile per tutti e due, se tu mi credessi”.

Jens non incarna solo la fantasia dell’infanzia ma la sua capacità di rivelare il mondo, di costruirlo e di reinventarlo; una fantasia che rappresenta nello stesso tempo uno strumento pericolosissimo. Tornare all’infanzia non è dunque un percorso a ritroso, un recupero dell’ingenuità e dello stupore, bensì un potente attore da tenere a bada, che può distruggere le stesse basi del mondo borghese. Un mondo che, tuttavia, alla fine si ricompone con la morte dell’infanzia o, verrebbe da dire, con il suo disciplinamento.

 

 

 

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