I quattordici bambini deportati da Torino

 

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Il 1° dicembre 1943, Mario Zargani legge sulla prima pagina della “Stampa” che il giorno prima il ministro dell’Interno, Buffarini Guidi, ha emesso l’ordinanza di polizia n. 5 con la quale si ordina l’arresto e l’internamento di tutti gli ebrei. La famiglia Zargani – Mario, Eugenia, e i figli Roberto e Aldo, rispettivamente di nove e dieci anni – è nascosta da una decina di giorni in una stanzetta davanti al n. 39 di via Berthollet, davanti cioè all’edificio che è stata la loro casa fino a quando un bombardamento l’ha resa inagibile. I Zargani si nascondono ma la notizia apparsa sul giornale li costringe a muoversi per cercare aiuto. Lo trovano all’Arcivescovado dove, per il momento, il cardinal Fossati e il suo segretario si prendono cura dei bambini e li tengono nascosti. “Quando verso le sette di sera, il buio della notte invernale si consolidò e cominciai a piangere – racconterà Aldo Zargani – nella certezza che il papà e la mamma fossero stati presi, il Cardinale pensò all’inizio di cavarsela con poco: tirò fuori da un cassetto dell’immensa scrivania settecentesca una trottolina. Ma a nulla poteva servire un giocattolo: il mio non era il pianto di un bambino, a dieci anni non si piange così, quello era il lugubre lamento di una persona con la vita spezzata, perché sa di aver perduto le persone più amate”[1].

Dopo le leggi razziali, l’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica sociale significano una seconda, ancor più brutale, ferita nell’identità e nelle vite dei bambini ebrei[2]. Una ferita che non si rimargina: “L’ingiustizia che mi ha colpito da bambino – scrive ancora Zargani – rende disarmonica la mia personalità con una lesione invisibile che però non è rara e si manifesta anche in altri, in mio fratello Roberto, ad esempio, che ha un anno meno di me ed è così diverso di carattere. Chiunque, se conosce i fatti, percepisce la gravità della strage che fu perpetrata in Europa, Gentile o ebreo che sia: ma se non era bambino, se non era ebreo bambino in quegli anni, non è affetto dalla nostra malattia, che è inguaribile e invalidante”[3]. E’ un trauma che accompagna i bambini più fortunati – quelli cioè che riescono a sfuggire ai nazisti e ai fascisti – per tutto il periodo dell’occupazione. All’abbandono e alla fuga si aggiunge soprattutto la necessità di nascondere la propria identità, in un silenzio che incide profondamente nella crescita psicologica delle vittime più piccole[4]. Un tema, questo, che in Italia è ancora quasi del tutto da affrontare[5].

Tuttavia, una parte non piccola dei bambini ebrei, come si è visto, conosce una sorte ancor più drammatica che li porta a “passare per il camino”[6]. Almeno quattordici bambini sotto i quattordici anni sono arrestati nella provincia di Torino, deportati e uccisi nei Lager nazisti[7]. Si tratta di circa il 5 per cento delle 246 persone arrestate (di cui solo 21 sopravvissute) in questa provincia. “Gli ebrei catturati a Torino furono rinchiusi dapprima nel carcere locale e poi trasferiti al carcere di San Vittore a Milano. Di là gli arrestati prima del 30 gennaio 1944 furono deportati direttamente ad Auschwitz; quelli catturati successivamente vennero invece trasferiti al campo di raccolta e transito di Fossoli di Carpi; infine, quelli catturati dopo il 2 agosto 1944 risultano essere stati avviati al campo di raccolta e transito di Bolzano-Gries”[8].

Nel dicembre 1943 Ida è la più piccola della famiglia Jachia con i suoi sei anni compiuti da appena un mese: Ercole ha sette anni, Anselmo ne ha nove, Pasqua ne ha undici. Insieme alla madre, Evelina Valabrega sono sfollati da Torino nella medievale città padovana di Montagnana. Tra le sue bellissime mura vengono arrestati il 23 dicembre e rinchiusi nel campo di concentramento di Vo’ Vecchio. Come è noto, infatti, se per gli antifascisti e i rastrellati il primo luogo di reclusione è normalmente il carcere, per gli ebrei – che nella maggior parte delle province conoscono anch’essi la prigione – vengono creati venti campi di concentramento provinciali sulla base della già ricordata ordinanza n. 5 del 30 novembre 1943 del ministero degli Interni della Repubblica sociale italiana, secondo la quale si devono arrestare e internare gli ebrei, sequestrandone i beni. Si tratta di caserme, ville, alberghi, templi israelitici, scuole, cascine, semplici edifici e piccoli campi che hanno una breve vita ma che servono a raccogliere gli ebrei per la deportazione: a Borgo San Dalmazzo, a Servigliano (in provincia di Ascoli Piceno), ad Asti, a Mantova, e appunto a Vo’ Vecchio – per fare solo alcuni nomi – alcune centinaia di ebrei italiani incominciano a conoscere la reclusione. Nel campo padovano, allestito nella grande villa Venier, sono alloggiate, nel dicembre 1943 le suore elisabettine sfollate dal capoluogo, un fabbro e sua moglie: nel corso del mese giungono i primi dei 47 ebrei che vi alloggeranno per circa sette mesi[9]: “A Vo’ eravamo ben lontani dal pensare… Anche perché c’erano sette bambini, e se si fosse voluto scappare, si poteva scappare. C’era un piccolo cancello, che dava sulla campagna, che poi andava sulla strada. Io, per dire, sono andata a Padova un pomeriggio a farmi pettinare. Vedete lo spirito, la voglia… Ero ben lontana dal pensare”[10]. Anche i bambini hanno il permesso di uscire dalla villa[11] e vengono accompagnati dalle suore a giocare. Don Giuseppe Rasia, parroco di Vo’, ricorda: “Tra gli internati vi erano persone di varie età e condizioni sociali. Uomini e donne, gioventù maschile e femminile, uno studente di liceo di 18 anni, tre fanciulli dai 7 ai 10 anni, figli di una vedova poverissima, macilenti, mal sviluppati e un’insegnante di Padova”[12].

Considerando l’Elenco degli ebrei già internati nel Campo di Concentramento di Vo’ Euganeo e poi deportati in Polonia, conservato presso l’Archivio della Comunità Israelitica di Padova[13], i tre fanciulli – in realtà quattro – non possono che essere Ida, Ercole, Anselmo e Pasqua. Come loro, gli altri internati di Vo’ Vecchio – Sara Gesses, di otto anni, viene nascosta all’ultimo momento ma i tedeschi la trovano subito – sono trasferiti a Padova il 17 luglio 1944: le donne e i bambini sono rinchiusi nel carcere dei Paolotti, gli uomini nella casa di pena di piazza Castello. Di qui sono inviati alla Risiera di San Sabba e poi ad Auschwitz il 31 luglio, arrivando nel campo polacco il 3 agosto: “Alla mattina  è venuto Mengele, quel maledetto, e ha fatto la selezione. Ha detto: – Tu quanti anni hai? – guardava la persona – tu mettiti di là, tu mettiti di là. Senza neanche chiederti niente. Allora gli anziani, le mamme anche giovani che avevano bambini piccoli, li eliminavano subito, mamma e bambino. Quindi vecchi, mamme e bambini da una parte, le persone che potevano lavorare, che si presentavano ancora bene, dall’altra parte”[14].

Il destino dei bambini torinesi – così come quello di quasi tutti i più giovani – è tragicamente monotono. Sergio Levi viene arrestato il 15 febbraio 1944, dodici giorni dopo aver compiuto il suo quattordicesimo anno di età. Il padre, Alessandro, viene preso tre giorni dopo, forse a Torino, insieme alla moglie, Germana[15]. I tre si ritrovano probabilmente in carcere, poi vengono inviati a Fossoli e di qui, il 22 febbraio, ad Auschwitz. Mentre non si conosce la sorte dei genitori, si sa che Sergio viene trasferito a Flossenburg dove muore dopo il 18 gennaio 1945. Nello stesso convoglio in cui viaggia Sergio, vi sono anche: il piccolo Guido Foà di otto anni, catturato dai tedeschi ad Asti nel dicembre 1943; Raimondo Jona, di sette anni, e il fratello Ruggero, di dodici, presi con i genitori in Val d’Aosta nello stesso mese; Italo Gustavo Levi, di dodici anni, arrestato a Como con i familiari, anch’essi a dicembre.  A differenza di Sergio, però, Guido, Italo, Raimondo e Ruggero – questi ultimi insieme alla madre, Ilka Vitale – vengono uccisi all’arrivo ad Auschwitz[16].

Non si conosce invece la data in cui Nella Attias, nata a Torino nel 1938, viene arrestata insieme ai genitori, Vitale ed Emilia Levi. I tre sono comunque catturati a Genova e detenuti nel campo di concentramento di Calvari di Chiavari, poi nel carcere di Milano, infine deportati ad Auschwitz il 30 gennaio 1944. La piccola Nella muore al suo arrivo nel Lager polacco, il 6 febbraio. Con Nella viaggia – e conosce la stessa sorte – Sissel Emilia Vogelmann, nata a Torino nel 1935 e arrestata a Firenze il 20 dicembre 1943 da italiani. All’arrivo ad Auschwitz viene inviata subito alla camera a gas, insieme alla madre, Anna Di Segni, mentre il padre, Schulim, sarà tra i sopravvissuti[17].

Elena Colombo deve ancora compiere 11 anni quando, il 25 marzo 1944, viene arrestata a Torino dai tedeschi. Il padre, Alessandro, e la madre, Wanda, sono stati arrestati a Forno Canavese l’8 dicembre 1943, trasportati al carcere di Milano e di qui inviati, con un convoglio di 605 persone, ad Auschwitz il 30 gennaio 1944 dove giungono il 6 febbraio. Wanda viene uccisa all’arrivo mentre il marito resiste fino all’11 novembre, data in cui risulta deceduto. La piccola Elena viene invece inviata a Fossoli e raggiunge anch’essa il Lager polacco, con il convoglio che parte dal campo italiano il 5 aprile e arriva a destinazione il 10[18]. In questo convoglio ­– composto inizialmente da 565 persone, a cui se ne aggiungono circa altre mille nelle soste di Mantova e Verona[19] –  vi sono almeno 33 bambini identificati: il più giovane è Roberto Gattegno che non ha neanche un anno, essendo nato a Rieti il 3 giugno del 1943. Altri due bambini, Claudio ed Estella Sacerdote, rispettivamente di undici ed otto anni, sono stati anch’essi arrestati a Torino, insieme alla madre, Lea Ghiron, sebbene originari di Milano.

Sullo stesso treno di Elena si trova Giuliana Tedeschi[20] – arrestata a Torino l’8 marzo e trasferita a Fossoli – che è riuscita a nascondere le sue due bambine: “la notte dell’8 marzo, alle 5 di mattina, si sono presentati a questa casa le SS e hanno trovate me e mio marito e le due bambine che allora avevano due anni e mezzo e undici mesi. Hanno preso solamente me e mio marito perché’ avevamo i documenti falsi, intimando alla donna di servizio, che era una fedelissima di mia suocera, (…) di non muoversi di casa. Allora noi siamo stati portati subito alle Nuove; ho poi saputo attraverso la suora che dirigeva il reparto delle politiche (…) che questa donna, che si chiamava Annetta Barale, assieme alle bambine sono scappate in casa di amici, hanno fatto perdere le tracce cambiando spesso domicilio e poi finalmente sono state ricoverate in un convento”[21]. Destini profondamente diversi quelli di Elena e di Giuliana: la prima probabilmente nascosta dai genitori ma comunque trovata dai nazisti, deportata ed uccisa al suo arrivo ad Auschwitz; la seconda che fortunatamente riesce a nascondere le figlie mentre il loro ricordo e la speranza di rivederle costituisce una non secondaria ragione della sua sopravvivenza[22]. Nella vicenda di Elena troviamo la tragica normalità dello sterminio, in quella di Giuliana l’eccezionalità della doppia sopravvivenza di madre e figlie. Per entrambe emerge la curiosità di conoscere percorsi poco noti riguardanti sia coloro che sono scomparsi sia coloro che sono diventati i figli dei sopravvissuti.

[1] A. ZARGANI, Per violino solo. La mia infanzia nell’Aldiqua  1938 – 1945, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 40.

[2] Di “second wound” parla A. STEIN, Hidden Children. Forgotten Survivors of The Holocaust, Penguin Books, New York, 1993, p. 6, riferendosi al silenzio a cui i bambini nascosti furono costretti.

[3] A. ZARGANI, Per violino solo, cit., p. 14.

[4] Cfr. L. LEVI, Una bambina e basta, edizioni e/o, Roma, 1994 e D. LEVI, Vuole sapere il nome vero o il nome falso?, Il Lichene Edizioni, Padova, 1995.

[5] Si veda l’intervento molto critico di D. LEVI, La psicoanalisi italiana e il trauma dei sopravvissuti. Il caso clinico che non c’è, in B. MAIDA (a cura di), 1938. I bambini e le leggi razziali, cit.

[6][6] Un buon esempio di ricerca che, a partire da una scheda del volume di L. PICCIOTTO FARGION, Il libro della memoria, cit. ricostruisce l’intero percorso di vita e di morte di una bambina ebrea è quello di M. BACCHI, Cercando Luisa. Storie di bambini in guerra 1938-1945, Sansoni, Milano, 2000.

[7] Così si ricava dall’elenco di L. PICCIOTTO FARGION,  Gli ebrei di Torino deportati, cit.

[8] Ivi, p. 168.

[9] Cfr. Da Este ad Auschwitz. Storia degli ebrei di Este e del campo di concentramento di Vo’, ricerca coordinata da Francesco Selmin presso l’ITIS “Euganeo” di Este, Cooperativa “Giordano Bruno” editrice, Este, 1987, pp. 27 e sgg. Cfr. inoltre G. MAYDA, Ebrei sotto Salò, Feltrinelli, Milano, 1978, pp. 213-214.

[10] Testimonianza di Bruna Namias, una dei tre sopravvissuti di Vo’, in Da Este ad Auschwitz, cit., p. 30.

[11] Secondo il ricordo di Antonio Ambrosi che all’epoca ospitò il commissario addetto alla sorveglianza del campo, in ivi, p. 33.

[12] Ivi, p. 35.

[13] Ivi, pp. 55-56.

[14] Ivi, p. 43, testimonianza di Ester Hammer.

[15] In L. PICCIOTTO FARGION, Il libro della memoria, cit., ad vocem,  le date di arresto coincidono mentre nella scheda di Alessandro manca la località di arresto.

[16] Ivi, ad vocem.

[17] Cfr. L. PICCIOTTO FARGION, Il libro della memoria, cit., ad vocem.

[18] Per queste notizie, cfr. ivi, ad vocem.

[19] Cfr. I. TIBALDI, Compagni di viaggio. Dall’Italia ai Lager nazisti. I “trasporti” dei deportati 1943-1945, Angeli, Milano, 1994.

[20] Sulla sua vicenda, G. TEDESCHI, C’è un punto della terra… Una donna nel Lager di Birkenau, Giuntina, Firenze, 1988.

[21] ARCHIVIO DELLA DEPORTAZIONE PIEMONTESE, Intervista a Giuliana Tedeschi.

[22] Cfr. G. TEDESCHI, C’è un punto della terra… Una donna nel Lager di Birkenau, Giuntina, Firenze, 1988.

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