Perché i bambini dovrebbero saperlo?

Veltroni

“Ma i bambini che c’entrano?”, si domanda Goffredo Fofi recensendo su “Internazionale” il film di Walter Veltroni I bambini sanno (http://www.internazionale.it/opinione/goffredo-fofi/2015/04/27/i-bambini-sanno-veltroni-recensione). Proviamo a togliere da questo documentario tutta la retorica tanto facile quanto narrativamente scontata, a partire dall’irritante commento musicale. Diamo poi per scontato il naturale successo pubblico di un discorso come quello veltroniano che, tra commozione e buon senso, non può che piacere a una classe dirigente che spinge nel futuro (anziché guardarlo o anticiparlo) le risposte a tutte le domande del presente. Asciugato da tutto ciò, la domanda di Fofi diventa centrale: perché questo non è un film che parla di bambini e ai bambini, bensì un film che parla di adulti e agli adulti.

Non penso si debba contestare a Veltroni di essere se stesso. Può emozionare o irritare, può essere assunto come guru oppure può essere pacatamente ignorato come quintessenza dell’ovvio, ma non gli si può chiedere di proporre una lettura del mondo diversa. Ciò che va segnalato, invece, è che in un documentario che vorrebbe mettere al centro i bambini, Veltroni non ha avuto abbastanza coraggio di farlo davvero. Non ha avuto il coraggio di lasciare il respiro necessario al tempo e allo spazio dell’infanzia, ai discorsi e ai silenzi, ai linguaggi e alle contraddizioni. Al contrario, li ha suddivisi in temi e ingabbiati in capitoli talmente forzati che dopo un po’ neanche il film riesce a seguire e a raccordare. Così facendo, Veltroni finisce per rappresentare i bambini attraverso categorie degli adulti, e cioè attraverso lo sguardo, le speranze, e le difficoltà dei grandi.

Veltroni sa bene che i bambini del suo film non sono i bambini di Della Seta (http://it.wikipedia.org/wiki/Diario_di_un_maestro) e di Comencini (http://it.wikipedia.org/wiki/I_bambini_e_noi). Sa bene che i ‘suoi bambini’ sono attori capaci di autorappresentarsi con impressionante dimestichezza e consapevolezza del mezzo cinematografico e dei suoi linguaggi, segno inequivocabile di tempi totalmente diversi. Fa bene, dunque, al termine del film, a lasciare a loro la costruzione della scena finale: il racconto per immagini delle loro camerette attraverso le riprese che i bambini fanno con il proprio cellulare. Sono immagini vere, perché in quelle inquadrature di giochi, letti, bambole, poster ci sono tutti i valori, i pensieri, le ambizioni e le gerarchie dei piccoli protagonisti. In un certo senso, è il disvelamento di un’ingenuità che è tale solo in parte.

Veltroni vorrebbe dirci che i bambini sanno di più degli adulti, che sono portatori di domande vere o perlomeno scarnificate da qualsiasi impurità e che offrono modalità di convivenza mediamente migliori rispetto a quelle dei loro genitori, e che in loro che dobbiamo trovare speranza in questi tempi di crisi, politica e valoriale. Veltroni non appare mai, sentiamo solo la sua voce fuori campo. Ma non basta nascondersi dietro alla telecamera per trasformare i bambini in protagonisti; non basta commuoversi e commuovere per celebrarne le qualità. Bisogna davvero fidarsi di loro, ascoltarli, guardarli. Non per scoprire che sanno o che hanno qualche forma di verità, ma per riconoscerne e rispettarne la condizione di bambini.